Il processo di diventare madre inizia nell’infanzia e continua nelle tappe di crescita, influenzato dalle esperienze personali nella relazione con la propria madre e con le figure primarie di attaccamento. La cultura di appartenenza è parte integrante nella costituzione dell’identità di ogni donna che diventi madre o no. Gravidanza e nascita costituiscono momenti di passaggio importanti nell’immagine di sé e possono far emergere eventuali nodi irrisolti nelle precedenti tappe di crescita.Vivere questa esperienza in una situazione di ‘esilio’ significa affrontare un delicato momento di fragilità e di cambiamento in condizioni a volte estreme, come accade ad esempio per le donne che arrivano incinte dalla Libia sui barconi per chiedere asilo nel nostro paese, segnate da traumi accumulati nel viaggio che si aggiungono a quelli che le hanno costrette a partire e dall’incertezza del proprio futuro. Anche per le donne che vivono la maternità in situazione di migrazione relativamente più sicura, le difficoltà sono moltiplicate rispetto a chi è nel proprio paese, per la mancanza di sostegno fra donne, i modelli diversi, la solitudine, la lingua. Il contesto di accoglienza ha un impatto importante nel fornire rassicurazione e supporto efficaci per riattivare le risorse presenti, o viceversa nell’appesantire e aggravare le difficoltà.Queste donne, esiliate o migranti, incontrano le istituzioni e i servizi preposti all’assistenza nel periodo perinatale e post-natale: servizi sanitari, sociali, educativi, psicologici. Spesso accade che le operatrici/operatori che lavorano nei consultori familiari, negli ospedali, nei servizi sociali, nelle comunità di accoglienza, negli asili nido guardino a queste madri in una prospettiva etnocentrica e le giudichino inadeguate o inadatte a crescere i loro bambini. La gravità dei traumi che hanno subito rende difficile ascoltarle, capire che cosa chiedono ed essere in sintonia rispetto al bene per i loro figli.Ma chi è una buona madre? E che cosa fa di una donna una cattiva madre?Le risposte che diamo a queste domande sono culturalmente connotate ma spesso le consideriamo come universalmente valide. Questa visione può produrre sofferenza sia negli operatori/operatrici che si sentono inefficaci, sia nelle donne che attivano diffidenza e distanza, e impedisce la costruzione di un’alleanza che, sola, può permettere interventi di aiuto efficaci.Abbiamo chiesto a Marie Rose Moro di intervenire su questi temi, sulla base della sua lunga esperienza. I percorsi migratori e di esilio, le esperienze affrontate, i traumi e i loro effetti sono in continuo cambiamento. Vogliamo discutere insieme su come sia possibile tener conto delle diverse culture e sensibilità e degli effetti dei traumi vissuti dalle donne, in esilio e migranti, nei nostri diversi ambiti di lavoro.Vogliamo darci un tempo insieme per riflettere su come possiamo essere professionalmente più efficaci nelle situazioni difficili che ci troviamo ad affrontare.
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