Un libro per riflettere sui modi di morire e sui modi di vivere, nella nostra civiltà medicalizzata, una limpida ricognizione della lingua che si accompagna all’esperienza del distacco.
Iona Heath (traduzione a cura di Maria Nadotti e postfazione di John Berger) - Collana Incipit, Bollati Boringhieri 10€
Che cosa succede quando la medicina è messa in scacco da una malattia
terminale o semplicemente dalla vecchiaia, vale a dire dal ciclo
naturale della vita? Che rapporto si instaura tra medico e paziente,
quando il crinale tra vita e morte si fa sempre più sottile? Come
dialogare con chi sta per lasciarci? Come accompagnarlo senza ridurlo a
oggetto di un inutile accanimento terapeutico? Come e quando passare
dalla cura all’alleviamento? Come rendere più lieve e dignitoso il
trapasso?
A queste domande chiave Iona Heath, medico di base con alle spalle oltre trent’anni di pratica
in
uno dei quartieri più poveri di Londra, risponde coniugando esperienza,
empatia e una straordinaria passione per la poesia e la letteratura.
Modi
di morire, una limpida ricognizione della lingua che si accompagna
all’esperienza del distacco, è la descrizione di un viaggio entro il
cui perimetro le parole di poeti, scrittori e pensatori illuminano la
lotta di uomini e donne comuni e i dettagli di vite e di morti che sono
sempre, in qualche misura, straordinarie.
Tra i compagni di strada
di Heath: Samuel Beckett, Walter Benjamin, Hans Georg Gadamer, John
Berger, Susan Sontag, W.G. Sebald, Lev Tolstoj, Isaiah Berlin, Philip
Larkin, Saul Bellow, Zbigniew Herbert, Seamus Heaney, George Steiner,
Roberto Juarroz, Joseph Conrad, Boris Pasternak, James Joyce, Jorge
Luis Borges, scrittori che hanno familiarità con l’immaginazione
sospesa dei morti.
l'autrice
Iona Heath, medico, lavora dal 1975 presso il Caversham Group Practice di Kentish Town, nella zona di Camden, a Londra.
Da
oltre vent’anni membro del Council of the Royal College of General
Practitioners, dal 1997 al 2003 ha presieduto l’Health Inequalities
Standing Group e dal 1998 al 2004 il Committee on Medical Ethics. Dal
1997 al 1999 ha fatto parte della Royal Commission on Long Term Care
for the Elderly e dal 2004 al 2007 della Human Genetics Commission.
Oggi è presidente del College’s International Committee e dell’Ethics
Committee del «British Medical Journal».
È autrice di vari saggi,
tra cui The Mystery of General Practice (1996) e – in collaborazione
con Patricia E. Hutt e Roger Neighbour – Confronting an Ill Society:
David Widgery, General Practice, Idealism and the Chase for Change
(2004).
Modi di morire (Matters of Life and Death, Radcliffe Publishing, London 2007) è la sua prima opera tradotta in italiano.
DA NESSUNA PARTE (postfazione di John Berger)
F. aveva novantacinque anni e, benché camminasse stando piegato come un coltello a serramanico chiuso a metà, si cucinava ancora i propri pasti, leggeva il giornale e seguiva quel che succede in Medio Oriente. Da quando era morta sua moglie, nessuna donna era andata a vivere alla fattoria. I suoi figli, che invece ci abitavano, avevano ingrossato la mandria di vacche da latte: da tre (quando andavano a scuola) erano diventate ben più di cento. F. invecchiava e i suoi figli, che credevano nel lavoro, lo accettavano così com’era e non cercavano di cambiarlo. Era un uomo a cui piaceva pensare e pregare e che non si impegnava troppo nel lavoro. Era anarchico per temperamento. Rispettoso e ostinato insieme. Di recente i figli hanno ricostruito l’intera casa, ma non hanno toccato la sua stanza, che è accanto alla cucina, in modo che potesse continuare a fare le stesse identiche cose che aveva sempre fatto: tritare le verdure per la minestra, pregare, accendersi la pipa e tentare di dar risposta ai propri interrogativi.
Martedì scorso F. è morto. La sera, giusto prima di cominciare a mungere le vacche, i figli lo hanno trovato sul pavimento accanto al letto, respirava a fatica. Si sono messi a telefonare a destra e a manca. Hanno risposto solo i vigili del fuoco della zona che, verso le dieci di sera, lo hanno portato all’ospedale della città vicina, dove è morto alle cinque del mattino. Rimosso precipitosamente da casa, F. ha trascorso le ultime ore della sua lunga vita con scarsa attenzione da parte dei medici. Date le circostanze, di cui non si può incolpare nessuna delle persone coinvolte, è morto arbitrariamente separato da quell’insieme di esperienza umana, acquisita nel corso dei secoli, che riguarda il compito di essere con, di accompagnare, chi sta morendo.
Quando F. era giovane, in questa regione alpina c’erano pochi medici e gli abitanti erano abituati ad affrontare tra loro la malattia (e la morte). Quando sono nati i suoi figli, esisteva un servizio medico nazionale; i dottori rispondevano alle chiamate in piena notte e venivano a casa, gli ospedali si erano ingranditi. I paesani hanno cominciato a dipendere sempre più dalla pratica medica professionale e a prendere sempre meno decisioni per proprio conto. Dieci anni fa, con la privatizzazione e la deregolamentazione, le cose sono cambiate ancora. Oggi l’assistenza medica in un pronto soccorso si è ridotta a un servizio di trasporto coatto. F. è morto da nessuna parte.
